Berta filava, Da lontano, Matto e disperatissimo, Sud-est, Testaccia mia, boccaccia mia

Le ricordanze

Pistrice

Qualche anno fa – era il 2006 e io avrei dovuto studiare per l’orale della maturità – sono stata invitata a un matrimonio all’Aquila. Si sposava una persona che avevo visto due volte in vita mia, ma con cui ero intima abbastanza da essere tra gli invitati, e ben felice di percorrere seicento chilometri per baciarla. È stata una giornata bellissima durata quarantotto ore. Il matrimonio era di Manuela, Mardin. Al tavolo con me c’era Stark e abbiamo riso tutto il tempo. Poi c’era Silvana con cui ho fatto il viaggio e diviso la stanza: kabbalah&cabbages. E tra i tavoli, aerea con i suoi ricci neri corti e gli occhi azzurro ghiaccio, c’era Sara, cioè Frieda; e anche Omar, cioè MullahOmar, che si è sposato tre anni dopo a Brescia (c’ero, ho anche pianto). Oltre a questi, che già facevano parte di una mia cricca mentale, c’erano Dadaumpa, Jtheo, Buffapersonazeta, nnoia e un sacco di altre persone che mi ripetevano «hai solo diciotto anni: domani sarai l’unica a svegliarsi come un fiore, mentre noi saremo uccisi dai postumi». Ed effettivamente così è andata, anche se ci avevo dato decisamente dentro fregandomene dei gradi alcolici da non mescolare.

Non ricordo quando ho letto per la prima volta il blog di Manuela. Ricordo però che era la roba più fresca che si potesse trovare su internet, e io avevo fame. Una volta in un post parlò di parrozzi e ne promise uno ai lettori tra i commenti, io le ho mandato il mio indirizzo e ho ricevuto un libro. Il suo. Mi ha sfamata molto più del dolce. Mardin era sveglia, sfaccettata, sfrontata, fuori dai denti. Aspettavo i suoi brani fremendo. Dai commenti, poi, ho conosciuto tutti, a pioggia: Omar, Silvana, Sara, persone che (come Manu) ancora sento e vedo e che mi sono care, che ho incontrato per le loro parole, i loro pensieri – su cui ancora si basano i nostri rapporti. Lo stesso vale per Gianmatteo, che fa parte di un’altra cricca di blogger – ho addirittura diverse compagnie di quel periodo splendido che credo dovrei mettere sotto l’etichetta 2.0, o anche adolescenza.

Le cose sono un po’ cambiate, dal 2006. Alcuni – la maggior parte – hanno chiuso il blog alla spicciolata, o l’hanno lasciato lì, aperto e fermo — così ha fatto Mardin. L’ultimo post si chiama in cor mi regna l’antico amor e spiega perché ha deciso di fermare uno spazio caleidoscopico e vivissimo, con mio grande dispiacere. Penso che Manu abbia sollevato molti problemi seri – come riusciva a fare in ogni suo scritto – in quest’ultimo pezzo; ma c’è anche la parte di me che è rimasta su Internet, e che la pensa in modo leggermente diverso.

solo per dirvi che ultimamente ho difficoltà a riconoscere la rete e tutta l’intelligenza che ci scorreva prima. nel frattempo la mia vita è cambiata ma io ho resistito, sono stata più forte e sono come prima, più di prima. non ho perso le parole. non me ne faccio niente di cento caratteri. io sono ancora per la lunghezza, per l’approfondimento, per la rilettura. non m’importa sapere se ti piace quello che ho scritto, mi importa sapere che ne pensi. non mi interessa sapere se sei al terzo caffé, né dove hai mangiato a pranzo. io vorrei sapere chi sei e un tot di marche e una decina di abitudini (tipicamente così mainstream da spingere alla misantropia) non aggiungeranno niente. certo: per dirmi chi sei occorrerebbe saperlo. occorrerebbe, soprattutto, avere la voglia di chiederselo. e proprio quella, credo, sia ormai scomparsa. l’importante è essere riconoscibile agli occhi di quelli sulla giostra: mangiare negli stessi posti degli altri, con ai piedi le stesse scarpe, con la stessa vacanza prenotata a fine luglio e far finta che basti. a me non basta. ed è sempre più difficile incontrare delle persone. a me piace perdermi. andare in una nuova città e girare. fermarmi dove mi va e non dove centinaia di persone che non sanno niente di me mi hanno detto di andare. il piacere, la felicità, anche nei viaggi, viene ridotto a una lista di cose da fare, di cose da avere. e il senso stesso dell’esperienza non esiste più.

La storia, in spicci, è questa: dopo l’apertura di tanti e vari social network, c’è stato l’esodo dei blogger sulle nuove piattaforme veloci e immediate. Morìa delle blog-vacche. Io stessa ho diminuito mostruosamente il numero di post, anche se ero approdata su Facebook a nome Cate Ventisei, pensando che così avrei mantenuto chiare le priorità. Poi ha chiuso splinder, e io non ho trasferito cinque anni di blog da nessuna parte, rendendomi conto che era il momento di decidere che farmene della scrittura online. Ho aperto questo blog e l’ho fatto diverso da quelli precedenti. Mi sono anche iscritta a twitter: siccome sono la prima a stare con il piede in due scarpe, penso che la situazione sia un po’ più complessa di un semplice passaggio da blogopalla a socialpalla.

Il paragone tra libri e blog che fa Manu, l’idea che un libro necessiti di una riflessione simile a quella di un post, mentre centoquaranta caratteri siano necessariamente frivoli e stupidini, mi ha ricordato la diatriba tra callimachei e poeti epici. Io, manco a dirlo, ho sempre tifato per i callimachei – e lo facevo già ai tempi del 2.0, quando i giornali tuonavano che i post avrebbero stravolto la lettura, impigrito le menti, ucciso il romanzo. Non è andata così: è andata che si è scoperto che su Internet  è meglio scrivere brani brevi (grazie al cazzo, aggiungerei col mio solito francese). E su cosa significhi “breve” si può discettare a lungo (passatemi il pun): la rete se n’è accorta, perché di posti dove lasciare note, pensieri, status o vattelappesca sono spuntati come funghi negli ultimi anni. Tra l’altro, coincidenza ironica, quando mi sono iscritta su Twitter i primi contatti che ho aggiunto sono stati quelli delle case editrici: o meglio, delle case editrici che non si sono fatte spaventare dallo schermo (le stesse, penso, che non percepiscono l’e-book come uno spauracchio). Einaudi è un’eminenza grigia anche in questo campo, e ricordando come le short-short stories arrivino da molto prima dell’uccellino azzurro ha lanciato la sfida #storiebrevi. I risultati, quando non sono capolavori, sono perle d’ingegno a volte meta-narrativo o meta-editoriale: Provò a scrivere #storiebrevi ma facevano tutte schifo; alla fine partorì un mattone, che faceva schifo pure lui, ma divenne un bestseller. (Margherita Dolcevita)

Insomma, un tweet può servire anche a parlare di cose diverse dal proprio pranzo. Anche se molti lo usano così: è la grossa fetta di internet che ribattezzerei “esticazzi”, che non comunica niente ma è convinta di sì. Al di là di questo, non credo che un pezzo “a misura di schermo” sia soltanto una frase su twitter – la prova è che spesso si cinguettano link ad altre pagine, incipit, indizi. O si twittano gli status di facebook – per me che vedo internet ancora come un gioco, questo è barare, o se non altro provare che al multitasking c’è un limite.

E ora veniamo all’altro orrore, fb. Osservavo con Gianmatteo una cosa: l’epoca dei blog è segnata dai nickname. Gianmatteo, per me e per un sacco di altra gente, era trentamarlboro. Io sono stata lacate, catecatecat, cateoctopuss. Facebook ha accolto nel web chi un blog non ce l’aveva, chi di nome aveva solo quello vero – e l’ha usato perché i profili sono aperti solo agli amici. Ci sono due conseguenze correlate e più o meno spaventose a questa cosa: la natura chiusa del giro faccialibresco annulla l’horror vacui che nel 2.0 portava a non usare il proprio nome vero e a non firmare i commenti minatori (i troll! ne avevo uno persino io); e oggi tutti hanno una pagina in cui fanno gli opinionisti usando nome e cognome. I “mi piace” che ricevono sono quelli degli amici: gente che, a vario titolo, già conoscono. È un circolo chiuso, non è come quando avevo diciassette anni e scoprivo schifezze e meraviglie vagolando a caso. È un circolo chiuso in cui l’intimità con gli “amici” è molto diversa da quella che avevo con i compagni di blog: ma perché sto parlando al passato? Per me la situazione è ben diversa. Su facebook ora ci sto col nome vero, come la gran parte dei miei amici blogger. Alcuni di questi scrivono ancora. Scrivono cose diverse o simili ai vecchi tempi, ma restando fedeli all’idea che internet serva a comunicare qualcosa. Ammetto che sono vittima della curiosità morbosetta che facebook può metterti addosso – andare a spulciare i cazzi degli altri pur sapendo che su quella pagina non ti sarà rivelato nulla di trascendentale; e mi rendo conto dell’idea falsata di vicinanza che questo social network può trasmettere. Non ritengo che sia il male assoluto, e ne faccio un uso frivolo, perché penso che sia una trovata intimamente frivola: ci scrivo frasi a effetto su cose stupide, ci carico sopra fotografie di cose curiose che vedo, e nella gran parte del tempo commento chi ne fa un uso intelligente o punzecchio amici che non vedo da tanto (Vipensiero, sto parlando di te). Percepisco facebook come un aggregatore in cui uno può piazzare le cose che fa e mostrarsi: le cose in sé si trovano su altre pagine. Anche in questo caso ci sono molte sfaccettature possibili, e anche se il mezzo è il messaggio chi sta dietro allo schermo ha una testa sola, e la responsabilità di comunicare qualcosa di sensato (o almeno divertente) è solo sua. Per “sensato” intendo “coerente al mezzo” – scrivere «oggi sono triste, il mondo è contro di me, la gente non capisce perché è cattiva» su facebook non ha senso. Per quello si va al bar e ci si ‘mbriaca con gli amici (provando, tra l’altro, che non si è soli al mondo: tutti hanno amici, anche la gente più odiosa).

Carlo M. Cipolla, che non era esattamente uno sprovveduto, ha scritto nel 1988 un piacevolissimo saggio breve intitolato Le leggi fondamentali della stupidità umana. Si può trovare pubblicato dal Mulino insieme al pamphlet Allegro ma non troppo, oppure in formato pdf qui. Teniamo conto delle prime tre leggi della stupidità:

Prima legge: Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.

Seconda legge: La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona.

A questo proposito, la Natura sembra veramente aver superato se stessa. E risaputo che la Natura, piuttosto misteriosamente, fa in modo di mantenere costante la frequenza relativa di certi fenomeni naturali. Per esempio, che gli uomini proliferino al Polo Nord od all’Equatore, che le coppie che si uniscono siano progredite o sottosviluppate, che siano nere, rosse, bianche, o gialle, il rapporto maschio-femmina tra i nuovi nati è costante, con una leggera prevalenza dei maschi. Noi non sappiamo come la Natura ottenga questo straordinario risultato, ma sappiamo che per ottenerlo deve operare con grandi numeri. Il fatto straordinario circa la frequenza della stupidità è che la Natura riesca a fare in modo che tale frequenza sia sempre e dovunque uguale alla probabilità a indipendentemente dalla dimensione del gruppo, tanto che si ritrova la stessa percentuale di persone stupide sia che si prendano in considerazione gruppi molto ampi o gruppi molto ristretti. Nessun altro genere di fenomeni oggetto di osservazione offre una prova così singolare del potere della Natura.

La terza legge (aurea) della stupidità recita: una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita.

Sebbene Cipolla abbia definito il suo studio un gioco, credo possa essere una buona guida anche per il caso dei social network. Il cruccio mio e di Gianmatteo era: perché alcune persone non sono intimidite dalla presenza del loro nome e cognome sulla loro bacheca facebook? Perché pubblicano foto di madre Teresa, citazioni di Fabio Volo, o peggio ancora esternazioni di profondissimi sentimenti, senza pensare che esiste anche una reputazione virtuale? Fanno un danno a sé stessi e agli altri, quindi fanno qualcosa di stupido. Appartengono, verosimilmente, a tutte le classi sociali, tenendo fede alla percentuale σ costante di stupidità. E sono sempre più di quanto una persona intelligente possa aspettarsi: infatti, tra tacere ed evitare una figuraccia e scrivere una cazzata vicino al proprio nome e cognome, un numero drammaticamente alto di persone sceglierà la seconda opzione. Sempre per la percentuale σ, Facebook svela questo meccanismo in chi aveva un blog stupido anche prima di affacciarsi sul mondo social e in chi non si sa regolare – che spesso è sinonimo di stupidità. Bisogna scremare sempre, anche se è più facile rimanere impantanati quando il cerchio si stringe: cercare di portare quello che di buono c’era nel 2.0 anche nel 3.0, comunicare qualcosa a più livelli (veloce, medio, lungo), avere la pazienza di leggere un post interessante e di riconoscere una frase che, per quanto breve, può portare da qualche parte (Giorgio Jannis si occupa di tutto questo – fa illuminante semiologia del web). E non dimenticarsi dei buoni libri, che non sono tutti i libri e che sono fatti di parole tanto quanto i post e i tweet, quasi a riconfermare che le parole giuste le si annusa volta a volta.

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10 risposte a "Le ricordanze"

      • Giorgio Jannis ha detto:

        Macché, tutto giusto nel profluvio 🙂
        *È un circolo chiuso, non è come quando avevo diciassette anni e scoprivo schifezze e meraviglie vagolando a caso*
        Esatto. Serendipity, ecosistema, reputazione, aver cura, e altre cose gnogne.

  1. Si vede che hai cinque anni di esperienza di scrittura online, questo passo e questa energia dovevano per forza essere il frutto di una palestra silente e duratura. Il tuo post l’ho letto tutto, con pazienza, lentamente, perche’ cosi’ andava letto. Mi hai fatto capire che se, talvolta, in questo mare di parole che ci sommerge su internet, scorro un testo velocemente, senza soppesare troppo le parole, e’ perche’ semplicemente quel testo cosi’ merita di essere letto. Mi piace che te ne strafotti di come si dovrebbe scrivere su internet. Con piu’ calma tornero’ e leggero’ tutto quello che hai scritto, fortunatamente sono solo 4 mesi e non so prima dove abitavi.

    • Caro Doze,
      grazie del commento e piacere.
      i miei innumerevoli (non cinque, ma addirittura nove!) anni di scrittura online sono stati segnati da intimismo e ombelichismo. Ad oggi su internet di mio trovi questo blog, delle recensioni e approfondimenti stampa su http://www.viadeiserpenti.it, e un pezzetto da ridere sul vintage (conaltrimezzi.com/2011/altre-arti/vintage-da-bettie-page-a-hipsteria/). Il blog storico, che si chiamava semplicemente ventisei, era su splinder e per scelta (per l’ombelichismo di cui sopra) non l’ho trasportato su altre piattaforme.
      Sono contenta che questo pezzo ti abbia fatto venir voglia di leggere quello che scrivo. Ora mi leggo quello che scrivi tu.

      a presto,

      c.

  2. Ho letto con gioia questo post che sembra provenire da un pianeta del quale non avevo più notizie da tempo, anche se i piccoli esperimenti che talvolta ho intrapreso con i mondi nuovi non sono mai riusciti a riconciliarmi con questa benedetta socialpalla.
    Segnalo che nel libretto di Cipolla mi pare manchi clamorosamente la possibilità di riconoscere la propria, di stupidità.
    Baci,
    Omar

    • Caro Omar!
      Spero si sia sentita in tutto il pezzo la nostalgia forte del periodo di cui parli(amo).
      Il libretto di Cipolla è anche riflessivo: ha un’introduzione molto bella e umile, e riporta un pratico diagramma in cui si può stabilire quali sono i comportamenti stupidi, intelligenti, banditeschi o sprovveduti di sé stessi e degli altri, e agire di conseguenza.
      Ti abbraccio e spero di vederti presto. Non sono più venuta a Milèn, ma entro quest’anno vorrei farmelo il tour del nord che non conosco. Bacini.

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